Jeff Mills live @ Viper Theater (FI) sab 17.3.2012
JEFF MILLS (Axis rec. USA)
Viper Theatre, via Pistoiese – via Lombardia. Le Piagge – 50145 – Firenze
Tel. 055 0195912
Vedi, esibire può anche essere un modo per dire quanto sia necessario far comprendere alla gente cose che noi, dj e produttori, diamo spesso per scontate: il modo in cui i dischi vanno mixati fra di loro, l’attenzione nel seguire un beat, nell’individuarne la metà o il quarto, nel seguire una specifica dinamica. Tutte cose fondamentali che molto spesso sfuggono a chi ci ascolta, ed è sempre un problema quando cose fondamentali vengono ignorate.
C’è tutto Jeff Mills in quest’ultima frase, la sua tensione etica che si fonde nella tensione estetica. Il tutto durante la nostra chiacchierata al Link di Bologna, in occasione dell’edizione 2004 di Distorsonie. Un’edizione in cui il dj di Detroit è stato il vero trionfatore, offrendo un dj set simile ad altri che gli avevamo sentito fare, simile anche a quanto è inciso sul bellissimo mix-cd nonché dvd Exhibitionist uscito recentemente per la React (da cui la nostra prima domanda), ma con degli scarti in più, con una potenza geometrica ancora maggiore. E’ facile farsi stupire dal vorticoso alternarsi di vinili sui piatti e muoversi delle mani sul mixer, caratteristica evidente dei dj set millsiani: in realtà tutto ciò è sviante. Fa pensare magari a virtuosismi fini a se stessi, fatti per stupire ed intrattenere con un po’ di spettacolo: nulla di più sbagliato. In questa nostra conversazione, viene fuori chiaramente cosa realmente fa da base all’estetica di Mills. Ovvero, un rigore e una tensione che, appunto, non sarebbe sbagliato definire etici. Una ininterrotta ricerca di ciò che sta alla base, della teoria che sta dietro alla pratica (e senza questa teoria, ci fa capire, la pratica perde gran parte del suo valore). Con però una finalità sognante, utopica – quella che contraddistingue le musiche nere che più hanno lasciato un segno nell’ultimo secolo nei loro momenti migliori: ” Quello che succede, almeno a me, è questa necessità di creare una musica che sia in qualche modo una piattaforma che consenta alla gente di fuggire dalla realtà, dai suoi aspetti più deprimenti. La mia musica è un tentativo continuo di andare sempre più lontano da ciò che è quotidiano e misero: e dato che ultimamente non mancano i motivi per essere sempre più depressi dalla realtà che ci circonda, a partire da guerre immotivate, questo approccio mi risulta sempre più attraente ed inevitabile. Ma al di là della situazione contingente: penso che il bisogno di fuggire sia connaturato alla natura dell’uomo contemporaneo”. Se sono lontani i tempi del progetto Underground Resistance così come lo conoscevamo nella sua prima incarnazione, quella gestita dallo stesso Mills e da Mike Banks (ma la stima reciproca fra i due pare intatta, nonostante la definitiva separazione artistica), non è scomparso quello spirito intriso di genio angolare e ostile (ma al tempo stesso, profondamente appassionato) che aveva trasformato gli UR nei “Public Enemy della techno” – definizione semplicistica, per certi versi, ma efficace per far capire la portata artistica ed emotiva del progetto, nonché la sua importanza a livello di storia musicale. Solo che oggi questo spirito, coi relativi aggiustamenti, è portato avanti da Mills in solitario. Uno spirito di una ricchezza inestimabile. E le parole che seguono, a nostro modo di vedere lo testimoniano appieno.
Una tua caratteristica evidente, penso anche ai vari progetti che hai creato negli anni, è una continua ricerca di una teorizzazione su quello che stai facendo – una teorizzazione non statica ma dinamica, in cerca cioè di utopie future, di evoluzioni. Bisogna considerarti in questo senso un’eccezione? Qual è il livello medio di consapevolezza artistica dei tuoi colleghi?
Quello che io speravo, e spero, di sentire è una maggiore personalità da parte degli artisti. Sarà il fatto che gli artisti della scena a cui appartengo usano macchine e alle macchine si affidano, non so… ma credevo che ad un certo punto, raggiunta una totale padronanza tecnica dell’uso delle macchine, sarebbe stato inevitabile curare maggiormente la componente della propria personalità, della propria singolarità artistica. Se però ascolti la maggior parte della musica elettronica prodotta oggi, ti accorgerai che si basa solo su processi di addizione e sottrazione, la forma di un pezzo e la sua struttura vengono costruite solo in questa maniera. Bisognerebbe che molti musicisti riuscissero ad astrarre il proprio modo di creare musica – questo li porterebbe a capire che non è solo questione di identità duali, di giusto e sbagliato, di bianco e nero: c’è invece tutta una zona grigia compresa fra questi due estremi, che può assumere molte tonalità. Del resto, è fatta così anche la nostra anima. E’ fatto così il mondo. Galleggiamo sempre in una zona grigia, muovendoci continuamente in mezzo ai due estremi, senza mai ancorarci definitivamente ad uno di loro (è fisiologicamente impossibile). La mia opinione, ma prendila come opinione strettamente personale, è che noi artisti di musica elettronica, che negli anni abbiamo avuto un pubblico incredibilmente appassionato e interessato, a questo nostro pubblico dobbiamo qualcosa: ovvero, riuscire ad arrivare ad una musica che consenta di fare un passo in avanti, che diventi una specie di medium per arrivare a stati di coscienza avanzati. Una musica in grado di sedurre, una musica in grado di parlare – senza ridurre tutto ad una questione di “ok, hai fatto un disco, lo compro, seguo quello che produce la tua etichetta perché so che è una buona etichetta”, che è esattamente ciò a cui ci si è ridotti in tutti gli anni ’90 e direi anche oggi. La mia speranza è che ci si renda conto che dobbiamo assolutamente trovare il modo di mettere in primo piano la nostra personalità nella musica che produciamo: di modo che quando compri un disco non senti solo “la nuova traccia di XYZ” ma senti proprio la sua voce, senti che l’artista in questione ti sta parlando e ti si sta raccontando. Ecco, questo è il passo in più che secondo me bisogna fare. Questo è il modo in cui, in una visione ottimista delle cose, la musica potrebbe diventare una cosa sempre più importante nelle nostre vite. Questo è ciò a cui aspiro.
Quali sono gli artisti che sono già indirizzati su questa strada?
Io ammiro tutti gli artisti che sentono di aver qualcosa da dire attraverso la musica elettronica. Parliamoci chiaro: ci sono davvero molte persone, nel mondo, che sarebbero felicissime di avere l’opportunità di parlare ad un sacco di gente, ma non riescono a trovare il mezzo giusto per esprimersi, o semplicemente non hanno abbastanza talento espressivo per poterlo fare. Ok, va bene: la musica elettronica contemporanea è nata come musica da ballare. Sì, va bene: noi abbiamo vissuto, fatto e creato migliaia e migliaia di feste, di party nel weekend. Questo lo sappiamo, e non voglio certo negare l’importanza di tutto ciò. Però: forse ora sarebbe veramente arrivato il momento di usare tutta questa energia che abbiamo seminato, di avere uno scambio reale con tutto questo pubblico che negli anni abbiamo cresciuto. A tutto ciò aggiungo che l’artista di musica elettronica è in linea di massima uno che si dedica ad una musica che è sperimentale – una musica quindi che deve per forza abitare la zona grigia di cui ti parlavo prima, dove non c’è giusto e non c’è sbagliato. Una scelta scomoda e, mi pare, un salto di qualità rispetto a quanto si sta facendo adesso. I cambiamenti sono una cosa complicata, lo so. Ma il mondo gira. Non si ferma. Le lancette degli orologi scorrono in avanti. Può anche essere scomoda, questa attitudine a cambiare, ma dobbiamo imparare a farla nostra. Abbiamo tutti cominciato facendo musica dance, chi lo nega. Ma la musica elettronica, per la sua anima, la sua forma e la sua essenza, è una delle migliori delle basi possibili attraverso cui inseguire cambiamenti.
A questo punto mi viene da chiederti se hai mai pensato di stupire il tuo pubblico facendo all’improvviso dei set ipersperimentali, o comunque diversi dalla techno serratissima che è il tuo marchio di fabbrica.
Sì, ho anche pensato di fare dei set che non fossero così focalizzati sul ritmo come lo sono abitualmente i miei; c’ho pensato, ma alla fine ho sempre deciso che non è il caso di farli. Non ancora, almeno. Perché la gente se ne andrebbe. La sala si svuoterebbe. E nel mondo, anzi, in una serata non ci sono solo io, non c’è solo “il dj”: c’è tutta la gente che lavora all’organizzazione, e queste persone hanno bisogno che chi arriva si diverta, di modo che poi torni anche nella serata successiva che viene organizzata, e poi in quella dopo ancora… Quindi insomma, non penso di potermi permettere di arrivare in un club e fare all’improvviso un set completamente non ritmico e sperimentale. Né lo voglio. Perché penso che i cambiamenti vadano fatti passo passo, sennò sono solo traumi inconcludenti. D’altro canto i set che suono adesso sono molto diversi da quelli che suonavo nel 1991. E sono differenze che sono date dai cambiamenti nella nostra società, nelle armi tecnologiche in nostro possesso: ora abbiamo molti più modi e tecnologie per poterci esprimere, grazie a ciò ora sono in grado di giocare un maggior numero di carte. Oltre a questo, io mi sono fatto più saggio ed è aumentato il mio bagaglio di conoscenze, anche in musica: ora, rispetto a dieci o quindici anni fa, ho molto più chiare quali sono le cose essenziali nella musica elettronica.
Se non sbaglio, i tuoi esordi vanno fatti risalire ad un gruppo di nome Members Of The House. Ce ne puoi parlare?
I Members Of The House erano il gruppo di Mike Banks: non ne ero un vero e proprio membro, diciamo che aiutavo durante i processi di produzione e registrazione. Era un gruppo focalizzato comunque sulle voci, diciamo che eravamo una specie di Temptations con in aggiunta elementi house. Soul music, ecco.
Ma nel momento di creare insieme a Banks Underground Resistance, eravate consci che stavate creando un esperienza artistica drasticamente radicale?
Almeno per quanto riguarda Detroit sì, ci rendevamo conto che come Underground Resistance stavamo dando vita a qualcosa di veramente nuovo e radicale; non avevamo grande cognizione di cosa stava accedendo in Europa o in altre parti degli Stati Uniti, se non cose frammentarie e dai contorni non molto chiari. Il nostro panorama insomma era Detroit. Ma attenzione: la nostra novità e radicalità non stava tanto in campo musicale, in quanto UR era semplicemente la combinazione dell’approccio di Mike Banks col mio (io ero tutto preso dalla musica industriale, nei suoi aspetti più sperimentali, Mike invece proveniva dalla scena house); è però vero che il risultato dell’unione di questi approcci già esistenti ha creato una alchimia che andava in direzione di una musica che diventasse un mezzo per indagare se stessi, che ti spingesse a scavare a fondo dentro te stesso. Nemmeno io so bene come ciò sia avvenuto, ma è avvenuto; senza nemmeno il bisogno che io e Mike teorizzassimo esplicitamente su questa cosa, su questo obiettivo.
Pensi che la musica elettronica seguirà il destino dell’hip hop e sarà negli anni quasi completamente assimilata dal mainstream, fino a diventarne magari il mezzo di espressione preferito?
Bisogna comunque dire che la musica elettronica si può suddividere in molti sottogeneri. Alcuni di questi sono stati alla fine già usati dalle major, dal mainstream. Ma la differenza fondamentale tra musica elettronica ed hip hop è il fatto che gran parte della musica elettronica è priva di parti vocali; al di là di questo, posso dire che la musica elettronica che io produco non ha proprio nulla a che fare con quello che potrebbe essere lo spirito delle major – ma penso che questo principio si possa applicare ad una robusta maggioranza dei miei colleghi. E’ una musica elusiva. Però su ogni musica le major trovano il modo di avere degli appigli e di adottare dei modi per renderla commerciabile: penso anche al jazz o al blues.
Ma qual è la tua opinione sull’hip hop odierno?
L’hip hop oggi? Vuoi davvero la mia sincera opinione? Guarda, sono profondamente deluso. Come dj, agli inizi, ero profondamente appassionato di hip hop. L’ho visto crescere, l’ho visto conquistare l’America e poi muovere verso l’Europa e poi ancora verso il resto del mondo: bene, oggi come oggi sono profondamente deluso. Le ideologie e le estetiche per cui aveva fatto da catalizzatore nei suoi primi anni (quelle che facevano riferimento alle comunità nere e urbane) resistono ancora oggi, non si sono mosse di un millimetro, non c’è stato nessun avanzamento. Proprio nessuno. Ancora oggi pare che tutto si riduca ad una questione di stile. Eppure nel mondo (così come nella stessa America e nelle stesse comunità nere) ci sono molte situazioni e molti contesti diversi che si sono sviluppati nel tempo, situazioni e contesti con cui in teoria la cultura hip hop è sempre e comunque entrata in contatto: ma pare che ciò non lasci traccia. Detto in modo più generale, la mia impressione è che l’hip hop non sia cambiato rispetto ai suoi esordi, non abbia insomma fatto nessun passo in avanti. Per qualcuno questo può essere rassicurante, ma… Lo diceva anche Flavor Flav, portando l’orologio al collo: i tempi corrono. Le cose che vent’anni fa potevano avere un senso oggi ne hanno un altro, le cose che vent’anni fa ci stupivano e potevano essere rivoluzionarie oggi, giocoforza, non sono più tali. Io pensavo che l’hip hop, proprio per il fatto che era una cultura basata sulla realtà, avrebbe avuto una forte evoluzione, di pari passo con l’evoluzione della società che ci circonda. Purtroppo non mi pare sia andata così.
Intervista a Jeff Mills (da Superfly, anno 2004)
—–