Sonic Reducer – Pere Ubu live a Firenze – 17 maggio 2007

Ieri sera si e' tenuto all' Auditorium FLOG di Firenze il concerto di Pere Ubu, gli statunitensi di Cleveland, Ohio, che nel 1977 definivano la loro musica "Folk industriale". Il concerto e' durato circa due ore. La loro versione di "Sonic Reducer" (conoscevo solamente quella dei Dead Boys, anch'essi nati dalla scissione di Rockets From The Tombs) era  molto intensa e rumorosa. L'auditorium era gremito e il pubblico galvanizzato dalla loro musica. Un concerto veramente rinfrancante almeno per quanto mi riguarda. Purtroppo non ho potuto scattare neanche una foto, ma spero di riuscire a trovarne almeno una e pubblicarla. Un saluto a tutte le amiche e gli amici che erano con me ieri sera al concerto:
Marti, Robi WJM, Kate, Francesca, Ambra, Syd, Tetano, Angelo, Tetano, Aquila.

Cito dal libro "Post-punk 1978-1984" di Simon Reynolds:

[…] i Pere Ubu erano una sorta di progetto artistico. Il nome proveniva dal despota di "Ubu Re", il dramma di Alfred Jarry, mostruosamente crudele e dedito a imprecazioni scatologiche. Nell' ultimo decennio del XIX secolo, l'opera aveva suscitato uno scandalo pari a quello del punk. David Thomas (il cantante della band) spiego' la scelta in questi termini: <<Per molti versi sono un personaggio grottesco>> – un' allusione alla sua corpulenza e alle sue fattezze grossolane –  <<e il gruppo ha un carattere grottesco. Non siamo un bello spettacolo>>. Thomas ammirava poi le <<idee teatrali e le tecniche narrative>> di Jarry: l' uso di cartelloni scritti per montare le scene, invece di arredi e fondali, in modo che il pubblico fosse costretto a usare l' immaginazione. Thomas elaboro' effetti d' alienazione analoghi per le esibizioni degli Ubu. L' intermezzo fra un brano e l' altro poteva comprendere riflessioni ad alta voce del tipo: <<Forse a questo punto dovrei stabilire un qualche contatto con il pubblico>>. Ci fu un periodo in cui nei concerti era compresa "Reality Dub": non una canzone, ma la simulazione estremamente realistica di un incidente.
I Pere Ubu nacquero dalle ceneri della precedente band di Thomas e Laughner, i Rockets From The Tombs, un progetto di natura meno esplicitamente artistica  che prendeva a modello la potenza grezza di Stooges e MC5. La prima mossa del nuovo gruppo fu registrare come singolo uno dei brani meno caratteristici dei Rockets From The Tombs. Nella versione degli Ubu, "30 seconds over Tokyo" (un tentativo di ricreare l' <<ambiente sonico totale>> dentro i bombardieri americani della Seconda guerra mondiale che partivano per radere al suolo la capitale giapponese) divenne ancora piu' eccentrica. Si apre con un ibrido strascicato e ritmicamente zoppicante tra Black Sabbath e reggae, poi accelera appena, si dissolve in schegge disomogenee, torna a un ballo reggae ante litteram, ricade in una sorta di chiacchiericcio apocalittico per spegnersi infine in un lancinante spasmo di feedback. Lunga oltre sei minuti, traboccante di contorti virtuosismi, la canzone era lontanissima dai Ramones: altrettanto, per esempio, di quanto lo fossero gli Eagles. Eppure, quando il singolo (pubblicato in proprio sulla loro etichetta Hearthan) comincio' a circolare all' inizio del 1976, i Pere Ubu si ritrovarono arruolati nelle file del <<punk>>, all' epoca in crescita mentre i giornalisti continuavano a esaltare la scena newyorchese del CBGB monitorando al contempo i primi segni di insurrezione a Londra.
Pur considerandosi affini ai Television (il gruppo piu' psichedelico e meno punkeggiante di New York) e ad altri eccentrici americani come i Residents che stavano entrando dalla porta aperta dal punk, i Pere Ubu guardavano con sospetto alla scena inglese. <<Le nostre ambizioni sono del tutto diverse da quelle dei Sex Pistols>> sbuffa Thomas, che trova quel genere di ribellione puerile e negativo. Gli inglesi, sosteneva, contaminavano con moda e politica cio' che invece doveva rimanere musica e sperimentazione artistica. I Pere Ubu non volevano pisciare sopra il rock: volevano contribuire a farlo maturare in quanto forma d' arte. <<La nostra ambizione era espanderlo in aree ancora piu' espressive, creando qualcosa di assimilabile a Faulkner e Melville, il vero linguaggio della coscienza umana>>. […]

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